Paolo Bonacelli giudice e avvocato di Oscar Wilde. Non è un reading classico quello che il noto interprete – per l’occasione diretto da Riccardo Massai – dedica alle note pagine di Wilde, ma una confessione apologetica quanto incriminante di un amore vissuto con tormento, che in scena gioca sulla presenza. C’è una sedia vuota vicino al boccascena, lasciata lì per Bosie, l’amante giovane e scapestrato dello scrittore, a cui la lettera è indirizzata. Le parole scorrono, accompagnate dal violoncello (musiche eseguite da Veronica Lapiccirella) in un’atmosfera cameristica, che raccoglie il pubblico. Il tema non potrebbe essere più attuale, Wilde è stato imprigionato per omosessualità e il giudizio degli altri resta un’ombra che accompagna tutto il suo racconto, in un pezzetto di intima cronaca che indirettamente chiama in causa un’omofobia ante litteram. Bonacelli è un giudice imparziale che rispetta i toni della confessione, senza patetismo. L’amore vince su tutto, eppure c’è un filo malinconico che accompagna le parole del poeta, mentre sembra ricredersi sulla condotta scellerata dell’amato amico, sull’inganno dei sentimenti, sul male di vivere con la condanna della colpa; di contro si dichiara schiavo delle passioni, debole e impotente di fronte al desiderio sprigionatogli dal suo Narciso. Il tema della malattia e dell’abbandono accompagna i ricordi dei momenti più lieti, mentre la scenografia è affidata a un repertorio chiaroscurale di immagini e parole che scorrono su un video. Lo spettacolo valorizza i tanti elementi drammaturgici già offerti da Wilde e i vari registi del testo (epistolare, lirico, poetico) offrendo al pubblico una rilettura densa di contrasti e di emozioni. Wilde si racconta e racconta l’amato con spirito critico, come se si auto processasse, confessandosi al tempo stesso. Al testo il poeta lavorò per quasi tre mesi, la lettera non arrivò mai a destinazione, restando rilegata a un mero sfogo personale. Nel reading questo elemento ritorna, i brani che dividono la narrazione come una partitura musicale, imprigionano le parole nell’anima del poeta e del pubblico come se tutto volutamente dovesse restare in quella sala, senza raggiungere mai l’esterno. Il finale è un testamento dandy che rimescola le carte. Nonostante tutto: “Il dolore è la suprema emozione di cui l’uomo è capace”.
Miriam Monteleone